Un reportage di A Nova Democrazia rivela come la Cina revisionista collabora con Israele e contribuisce all’occupazione della Palestina. Un lavoro da diffondere che smaschera i populisti di sinistra sostenitori del “multipolarismo” ed i gruppi revisionisti e rosso-bruni  che appoggiano  il socialimperialismo cinese.

Traduzione non ufficiale da A Nova Democracia[1]

Formato opuscolo, 12 pagine in A4, corredato da foto di documentazione scaricabile al seguente link  IL SOCIALIMPERIALISMO CINESE SOSTIENE ISRAELE

Di seguito il testo del reportage.

 

Il presidente cinese Xi Jinping (a destra) incontra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (a sinistra) nella Grande Sala del Popolo a Pechino, il 9 maggio 2013. Foto: Kim Kyung-Hoon/AFP via Getty Images

Negli ultimi anni, la Cina si è eretta a difensore della causa palestinese. Nelle assemblee dell’autoproclamata Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), gli emissari cinesi hanno difeso il diritto del popolo palestinese alla lotta armata per la liberazione e hanno denunciato un “disastro umanitario” a Gaza.

Tuttavia, la retorica cinese a favore della Palestina nasconde una vasta rete di relazioni di Pechino con l’entità sionista, miliardi vengono spesi in negoziazioni, imprenditori cinesi partecipano in modo preponderante all’azionariato di conglomerati israeliani, armi cinesi vengono utilizzate in operazioni nel territorio palestinese occupato e la stessa strategia della “guerra al terrorismo” di Israele viene applicata dalla Cina nell’oppressione delle minoranze nazionali.

Queste relazioni iniziarono ad approfondirsi nel 1976, dopo che il leader di destra Deng Xiaoping coordinò un colpo di stato nel Partito Comunista Cinese (PCC) e nel governo della Repubblica Popolare, arrestando e assassinando migliaia di quadri comunisti e dando inizio al processo di restaurazione capitalista nel paese. L’importante dirigente comunista Jiang Qing e quadri come Zhang Chunqiao, Wang Hongwen e Yao Wenyuan furono arrestati nel corso di questo processo.

 

La Cina socialista di Mao ripudiava il sionismo

Prima del colpo di Stato, la Cina manteneva una ferma difesa e sostegno alla causa palestinese e respingeva i tentativi di avvicinamento da parte di Israele. Nel 1955 il primo ministro Zhou Enlai paragonò la questione palestinese a quella di Taiwan, dove i fascisti del partito Kuomitang erano fuggiti dopo il trionfo della Rivoluzione cinese e avevano creato una falsa “Repubblica di Cina” con il sostegno degli Stati Uniti, affermando che “nessuno dei due problemi può essere risolto pacificamente”.

Un paragone simile fu fatto dallo stesso presidente Mao Tse-tung nel 1965, quando definì Israele “base dell’imperialismo”. “L’imperialismo teme la Cina e gli arabi. Israele e Formosa [Taiwan] sono le basi dell’imperialismo in Asia. Voi siete la porta d’ingresso del grande continente e noi siamo le retrovie”, affermava Mao Tse-tung. “L’Asia è il continente più grande del mondo e l’Occidente vuole continuare a sfruttarlo”, aggiungeva. “L’Occidente non ci ama e dobbiamo comprenderlo. La battaglia contro l’Occidente è la battaglia contro Israele.”

Durante gli anni ’60 il PCC stabilì contatti con partiti palestinesi come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) e Fatah, diventando anche il primo Stato non arabo a sostenere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di allora.

Nel marzo 1965 il leader dell’OLP Ahmad Shuqayri visitò Pechino e negoziò il primo accordo per la fornitura di armi per l’organizzazione. Il viaggio si concluse con la creazione di un ufficio diplomatico dell’OLP nel Paese asiatico.

Per sei anni, tra il 1965 e il 1971, la Cina formò i guerriglieri palestinesi con addestramenti militari e insegnamenti del Pensiero di Mao Tse-tung sulla guerriglia e la dottrina della Guerra Popolare.

Con l’inizio della Rivoluzione Culturale (1966-1976) la Cina interruppe tutte le relazioni diplomatiche con i paesi arabi, ad eccezione dell’Egitto, ma mantenne e addirittura ampliò il sostegno alle organizzazioni della resistenza palestinese, come dimostra lo studioso Shai Har-El nel libro La Cina e le organizzazioni palestinesi (1964-1971).

Dopo essere entrata a far parte delle Nazioni Unite nel 1971, la Cina continuò a sostenere la causa palestinese. Nel 1971 ospitò una Settimana Internazionale della Palestina, che comprendeva comizi pubblici, mostre e proiezioni di documentari sul popolo palestinese, e l’Associazione del Popolo Cinese per l’Amicizia con i Paesi Stranieri organizzò l’evento insieme alla Lega Araba e all’OLP.

Durante l’estate del 1974 fu riaperta un’ambasciata dell’OLP a Pechino e l’anno successivo la Cina appoggiò la risoluzione 3379 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1975, che equiparava il sionismo al razzismo.

 

Il colpo di Stato revisionista negozia con il sionismo

Con il colpo di Stato di Deng Xiaoping la Cina iniziò a ridurre il suo sostegno alla causa palestinese, appoggiò gli accordi di Camp David del 1978, stipulati in segreto tra Egitto, Israele e Stati Uniti per dividere i territori palestinesi, e incominciò ad approfondire le relazioni con il sionismo.

Negli anni ’80 la Cina iniziò a stipulare una serie di accordi segreti con Israele e sia Pechino che Tel Aviv accolsero delegazioni di accademici, esperti, imprenditori e borghesi provenienti da entrambi i paesi.

Nel 1987 il primo ministro israeliano Shimon Peres istituì la prima azienda statale per intrattenere rapporti commerciali con la Cina.

Negli anni ’90 la Cina sostenne gli Accordi di Oslo tra l’OLP e Israele, nonostante l’opposizione di importanti settori del popolo palestinese, stabilì relazioni diplomatiche complete con l’entità sionista e avviò una serie di avvicinamenti con il governo israeliano.

Questa serie di azioni ha creato le basi necessarie per la creazione della vasta rete di relazioni oggi esistente. Questa rete è così ampia che, nel 2020, la Cina ha iniziato a esportare più verso Israele che verso gli Stati Uniti, sebbene questo non derivi tanto dall’entità sionista quanto dagli yankee. Nel 2024, già nel pieno del genocidio a Gaza, il volume degli scambi tra la Cina e Israele è stato superiore di 500 milioni di dollari rispetto a quello tra i sionisti e gli yankee.

Il dato è ancora più significativo se confrontato con gli scambi commerciali con la Palestina. Nel 2021, gli scambi commerciali tra Cina e Israele hanno raggiunto i 16,2 miliardi di dollari, mentre quelli tra Pechino e la Palestina ammontavano appena a 88 milioni di dollari, secondo i dati pubblicati nella rivista elettronica della Scuola di Studi Orientali e Africani dell’Università di Londra.

Questo coinvolgimento include aziende statali e conglomerati non statali che sono tenuti a ricevere “consulenza” da un membro del PCC revisionista che può esprimere la propria opinione sugli orientamenti aziendali. Tutto ciò indica che vi è un innegabile coinvolgimento e contributo dello Stato cinese nell’attività coloniale sionista.

Il finanziamento del genocidio

Queste trattative riguardano articoli militari, che hanno un peso significativo in Israele poiché contribuiscono al genocidio del popolo palestinese e all’aggressione contro altri popoli del Medio Oriente. Tra il 2023 e il 2024, la Cina ha venduto 54.000 dollari in articoli quali manganelli, spade, pistole e armi ad aria compressa o a molla alla polizia israeliana. Un articolo pubblicato dal portale Al Jazeera ha denunciato l’uso di droni commerciali cinesi prodotti dalla DaJiang Innovation Company (DJI) nei bombardamenti di ospedali e rifugi durante l’avanzata genocida di Israele nel 2024. I droni sono stati utilizzati anche per sorvegliare i prigionieri palestinesi mentre questi fungevano da scudi umani per le forze di occupazione israeliane, pratica considerata un crimine di guerra.

I droni della DJI vengono impiegati nei territori occupati. Foto: Riproduzione

“Non è la prima volta che i droni della DJI vengono modificati e utilizzati dagli eserciti”, riporta l’articolo. “Esistono segnalazioni simili su entrambi i fronti nella guerra tra Russia e Ucraina nel 2022. In quell’occasione, DJI sospese le vendite a entrambi i paesi e introdusse modifiche al software che limitavano le aree in cui i droni potevano volare e l’altitudine massima di volo. Ad ogni modo, DJI non ha interrotto le vendite a Israele”.

I droni cinesi utilizzati dallo Stato sionista erano i modelli DJI400, DJI Mavic, DJI Avata e DJI Acras, quest’ultimo impiegato per bombardare un centro di assistenza umanitaria a Jabalia, nella Striscia di Gaza, appartenente a una ONG turca denominata Fondazione per i diritti umani, le libertà e l’assistenza umanitaria (İHH). Il Ministero della Difesa israeliano acquista i droni DJI tramite una società denominata Hobbiz Ltda, che ha ricevuto formazione da DJI, e anche da altri distributori.

Un breve rapporto pubblicato dal centro di ricerca indipendente Who Profits rivela altri dettagli sull’uso dei droni cinesi in Israele. Nel 2015, una società che sviluppa attrezzature di polizia repressive chiamata ISPRA ha sviluppato un dispositivo per la dispersione di bombe lacrimogene, il sistema Cyclone.

Nel 2018, lo Stato sionista ha impiegato droni per lanciare bombe lacrimogene sui manifestanti palestinesi durante la Grande marcia del ritorno. Al Jazeera ha denunciato la complicità di DJI, che ha intrapreso azioni contro l’uso violento dei droni durante l’invasione russa in Ucraina, ma che non ha mai preso posizione né ha smesso di vendere a Israele nonostante i ripetuti casi di utilizzo dei droni per la violenza e la repressione da parte della polizia.

Un’indagine esclusiva del giornale A Nova Democracia ha rivelato che anche la Cina ha studiato l’uso dei droni a fini repressivi. Documenti delle stazioni di polizia cinesi consultati dal portale Wayback Machine mostrano che dal 2014, al culmine della campagna cinese di “Guerra al terrorismo”, le forze di polizia cinesi hanno investito in ricerca, sviluppo e formazione per l’uso dei droni.

La stazione di polizia di Tonghua riconosce più volte l’uso della tecnologia come mezzo per il lancio di lacrimogeni e altri strumenti di repressione poliziesca, come dimostra la sua dichiarazione sul drone Tongfei Numero 2. “[Il drone] effettua la cattura e la consegna a distanza di attrezzature e materiali con un manipolatore controllato a distanza, lancia oggetti con un paracadute a discesa lenta in condizioni di terreno complesso e lancia armi non letali, come bombe fumogene, bombe lacrimogene, ecc., quando necessario in un combattimento reale”, afferma il testo pubblicato il 25 gennaio 2014 e consultato da AND.

I paesi imperialisti rafforzano le loro relazioni discutendo su come reprimere le legittime manifestazioni popolari in modo più efficiente e violento. Cina, Stati Uniti e Israele formano un triangolo per lo sviluppo di strategie di spionaggio e tecnologie di repressione. In questo modo, la complicità della Cina nel genocidio di Gaza non è passiva. Ha investito e dialogato con Israele e Stati Uniti su metodologie e tecnologie repressive e la Palestina è un laboratorio dove “Israele porterà da 0 a 1 e la Cina porterà da 1 a 100”.

D’altra parte, la Cina è stata criticata in passato perché gli israeliani hanno trovato armi cinesi negli arsenali di gruppi palestinesi come Hamas, ma l’analista della sicurezza Dr. Patrick Bury ha dichiarato al quotidiano britannico Telegraph che è più probabile che tali armi siano state fornite a Hamas dall’Iran.

“È possibile che si tratti di articoli acquistati dall’Iran dalla Cina e che siano finiti nelle mani di Hamas. Esistono altri possibili intermediari, ma questa ipotesi è molto meno probabile”, ha affermato, aggiungendo che “la Cina non apprezzerà che gli iraniani utilizzino in questa maniera i suoi kit di fanteria e che il coinvolgimento di Pechino nell’addestramento dei gruppi palestinesi è venuto meno dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche con Gerusalemme nel 1992.”

Costruzioni nei territori occupati

Altri investimenti cinesi in Israele ammontano a miliardi di dollari e contribuiscono a finanziare le infrastrutture nei territori occupati. L’Istituto israeliano per gli studi sulla sicurezza nazionale ha riportato nel 2021 che la Cina ha investito 1,2 miliardi di dollari nel settore agricolo israeliano, 723 milioni di dollari nel settore energetico, 2,2 miliardi di dollari nelle infrastrutture portuali, 430 milioni di dollari nel settore accademico, 2,4 miliardi di dollari nei minerali e 300 milioni di dollari nei cosmetici. A ciò si aggiungono i due maggiori settori dell’informatica (1,1 miliardi di dollari) e della medicina (1,3 miliardi di dollari).

Un reportage del Middle East Eye (MEE) pubblicato nel 2025 denuncia come la Cina stia silenziosamente sostenendo l’impresa di occupazione israeliana. L’articolo sottolinea che la Cina ha acquisito, in tutto o in parte, aziende sioniste, comprese aziende di prodotti domestici come cosmetici o alimentari. Queste aziende traggono diretto vantaggio dal genocidio dei palestinesi e dall’occupazione coloniale dei loro territori, utilizzati per espandere le attività commerciali e aprire nuovi franchising dei loro servizi a basso costo immobiliare. Ciò porta ad un aumento del valore speculativo dell’azienda, cosa che a sua volta soddisfa gli azionisti.

Tra le aziende figura Ahava, un marchio di cosmetici che ha la sua sede produttiva nell’insediamento di Mitzpe Shalem, nei territori occupati palestinesi. “Ahava, oggetto di una campagna globale di boicottaggio, è già stata identificata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite come parte di insediamenti illegali”, afferma Razan Shawamreh, ricercatrice ed esperta di politica internazionale palestinese in Medio Oriente, in un’intervista a MEE.

“L’ex ambasciatore Zhang Jun ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2023: ‘Consigliamo a Israele di frenare la crescente violenza coloniale in Cisgiordania per evitare che il territorio diventi oggetto di intense dispute e che il conflitto si diffonda.’ Il suo successore, Fu Cong, ha ribadito il messaggio, consigliando a Israele di ‘cessare le sue attività di occupazione illegale in Cisgiordania’. Ma che dire del coinvolgimento della stessa Cina in queste attività?”, si interroga Shawamreh. “L’agenzia delle Nazioni Unite per i diritti umani denuncia spesso le aziende coinvolte in attività associate all’occupazione coloniale, eppure le aziende cinesi continuano a coltivare tali collaborazioni”.

Gli imprenditori cinesi che hanno acquisito in tutto o in parte le aziende sioniste sono anch’essi beneficiari diretti del genocidio. È il caso dell’azionista di maggioranza di Tnuva, azienda alimentare che gestisce anche linee di trasporto nei territori occupati, acquisita al 56% dal conglomerato cinese Bright Food. Esistono collaborazioni e investimenti anche nel settore medico, come nel caso di Juva Medical, un’azienda cinese che ha acquisito parzialmente l’azienda EndyMed per distribuire sul mercato cinese le tecnologie sviluppate da Israele, come ad esempio le applicazioni delle tecnologie laser militari a fini estetici.

Gruppi imprenditoriali cinesi hanno inoltre acquisito, integralmente o parzialmente, diverse aziende di carattere strategico in Israele. Una di queste acquisizioni è stata quella di Adama Agricultural Solutions, acquistata parzialmente al 60% nel 2016 secondo quanto riportato da Reuters e acquisita integralmente nel 2017 dal gruppo ChemChina.

I veleni prodotti da questa azienda sono stati molto probabilmente utilizzati in operazioni aeree di scarico di pesticidi dal 2014, per le quali gli abitanti sionisti al confine hanno ricevuto un avviso mentre i contadini palestinesi no, con conseguente avvelenamento, contaminazione dell’acqua e perdita totale del raccolto. Secondo il gruppo Investigate, “il Ministero della Difesa israeliano conferma che lo spargimento avviene sul lato israeliano del confine e si rifiuta di rivelare le posizioni esatte per ‘motivi di sicurezza’. Tuttavia, diversi agricoltori palestinesi hanno visto le loro coltivazioni distrutte”.

Prosegue: “La Croce Rossa ha confermato che gli erbicidi hanno ‘distrutto completamente’ le coltivazioni e contaminato le fonti d’acqua situate in un raggio di 900 metri dal confine. È stato inoltre scoperto che gli erbicidi hanno danneggiato le coltivazioni fino a 20 chilometri all’interno della Striscia di Gaza. La larghezza totale della Striscia di Gaza è compresa tra 75 e 120 chilometri. Durante la stagione degli scarichi dall’inverno 2017 al 2018, i diserbanti hanno colpito 220 ettari di terreni agricoli e 1040 ettari di pascoli”.

Una nuova traiettoria dell’occupazione

Nel 2013, già sotto il governo di Xi Jinping, la Cina ha presentato un megaprogetto denominato “Una cintura, una via”, oggi noto come “Belt and Road Iniatiative” (BRI) o “Nuova Via della Seta”. Si tratta di un megaprogetto internazionale di esportazione del capitale cinese attraverso la costruzione di megastrutture in paesi per lo più semicoloniali.

Porto di Haifa, realizzato in collaborazione con la Cina. Foto: Ahmad Gharabli/AFP/Getty Images

Negli ultimi anni, l’entità sionista è stata incorporata nella Nuova Via della Seta. Attraverso questo megaprogetto, la Cina ha svolto un ruolo centrale nella costruzione del porto di Haifa, con un investimento di 1,7 miliardi di dollari da parte di conglomerati portuali cinesi, tra cui lo Shanghai International Port Group, nella costruzione dell’opera completata nel 2021. Il gruppo portuale cinese si è aggiudicato una gara d’appalto per costruire e poi gestire per i prossimi 20 anni l’ampliamento del porto, a condizione che i contratti vengano rispettati.

Il porto di Haifa è un punto di approvvigionamento fondamentale per Israele. Il porto di Haifa è sede della marina israeliana e comprende una nuova struttura per ospitare i nuovi sottomarini classe Dolphin. Haifa ospita regolarmente anche simulazioni ed esercitazioni navali in collaborazione con gli Stati Uniti, oltre alle visite di navi statunitensi. Per questo motivo, il luogo è diventato bersaglio di attacchi da parte della Resistenza Nazionale Yemenita in solidarietà al popolo palestinese di Gaza. Anche la Resistenza Nazionale Palestinese ha già colpito la struttura costruita con il sostegno cinese.

Le relazioni tra Cina e Israele si sono sviluppate a tal punto che gli Stati Uniti hanno iniziato a esercitare pressioni sull’entità sionista per tentare di boicottare tali legami. Ciò ha portato, nel 2025, al divieto per la Cina di partecipare alla costruzione di diversi settori infrastrutturali israeliani considerati sensibili o strategici, tra cui un progetto metropolitano del valore di 2 miliardi di dollari.

Il portale Railly News, un sito dedicato alla pubblicazione di notizie relative a metropolitane e treni, ha affermato che “questa decisione inaspettata è, secondo fonti ufficiali, dovuta a significativi rischi geopolitici che riguardano i legami della China Railway Construction Company con il settore militare cinese e la sua inclusione nella lista nera del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (railsecurity.org)”.

“Ciò ha sollevato serie preoccupazioni tra i funzionari israeliani riguardo alle possibili implicazioni per la sicurezza e le relazioni internazionali”, continua il portale. “È chiaro che le autorità dovranno anche tenere conto delle possibili sanzioni e pressioni diplomatiche da parte degli alleati internazionali qualora questa gara d’appalto venisse approvata. Di conseguenza, i treni elettrici della CRRC sono diventati una questione politica complessa, che va oltre un semplice progetto di sviluppo del trasporto pubblico”.

Sebbene non sia riuscita ad aggiudicarsi l’appalto per questo progetto, la China Civil Engineering Construction Corp ha realizzato altre opere di ingegneria civile, tra cui la costruzione di 15 chilometri di gallerie nella regione settentrionale di Israele e la costruzione della linea rossa della metropolitana di Tel Aviv, realizzata in collaborazione con la China Railway Tunnel Group.

Investimenti di grande portata vengono effettuati da o in collaborazione con aziende statali cinesi quali la China Ocean Shipping Company, la China National Chemical Corporation, la China Railway Construction Company e la China Civil Engineering Construction Corp, per un totale di oltre 30 secondo un articolo pubblicato dal China Daily.

Sionisti in territorio cinese

Gli investimenti cinesi in Israele non si limitano all’area del territorio coloniale occupato: la Cina invita i sionisti a partecipare alla ricerca e allo sviluppo sul proprio territorio.

Il 22 gennaio 2025, il China-Israel Changzhou Innovation Park (Parco dell’innovazione Cina-Israele di Changzhou) ha invitato i sionisti a celebrare il decimo anniversario della creazione della struttura. Il parco conta 300 imprese sino-israeliane, con 60 progetti di cooperazione tecnologica e 20 aziende israeliane già registrate e operative.

I vantaggi offerti dal parco dell’innovazione includono crediti, sussidi per la protezione dei brevetti, affitto di spazi inutilizzati, ricompense per gli investitori e programmi di ricerca e sviluppo che vanno da 500.000 a 10 milioni di yuan. Il governo offre anche politiche di sostegno alla collaborazione tra università, ricerca e sviluppo privati e industria.

I think tank nelle università cinesi e l’alleanza 7+7

Un altro elemento degno di nota nella cooperazione sino-israeliana è l’Alleanza 7+7, una partnership tra sette delle principali università di ciascun Paese.

Da parte cinese, l’Università di Tsinghua, l’Università di Pechino, l’Università di Nanchino, l’Università di Renmin, l’Università di Shandong, l’Università di Agraria della Cina e l’Università di Agraria e Silvicoltura dello Shaanxi costituiscono la partnership.

Dal lato sionista, sono coinvolti nella partnership l’Università di Tel Aviv, l’Istituto Technion, l’Università Ebraica di Gerusalemme, l’Istituto Weizmann, l’Università Ben Gurion del Negev, l’Università di Haifa e l’Università Bar-Ilan.

Questo progetto ha portato a “oltre cento proposte di progetti nei settori della biologia, della scienza dei materiali, della salute, dell’energia, dell’ambiente, dell’elettronica, dell’aerospaziale e in altri campi”, secondo quanto dichiarato dal rettore dell’Università di Tel Aviv, Joseph Klafter, in un’intervista al sito ufficiale dell’Università di Tsinghua.

Un altro elemento di relazione tra Cina e Israele è il gruppo Sino-Israel Global Network & Academic Leadership (SIGNAL) (Rete globale e leadership accademica sino-israeliana), un think tank che opera nelle università cinesi per modificare la percezione pubblica del conflitto di Israele con il Medio Oriente.

“Serie sul sionismo” disponibile sul sito web di SIGNAL. Foto: Screenshot

Il gruppo SIGNAL è stato fondato dall’israeliana Carice Witte e dalla cinese Guan Yuan. Uno dei corsi offerti dai docenti israeliani di SIGNAL è la “serie sul sionismo”, tenuta da Yisrael Ne’eman, che tra le altre idee sostiene che “antisemitismo” è sinonimo di “antisionismo”.

In un opuscolo ufficiale dell’organizzazione, SIGNAL chiarisce il suo legame con lo Stato cinese, con il PCC e le sue attività nelle università. “SIGNAL è l’unica organizzazione ebraica o israeliana con programmi in tutta la Cina e membro dell’Associazione dei Think Tank della Via della Seta cinese, sotto l’egida del Dipartimento Internazionale del Comitato Centrale del Partito al governo in Cina”, si legge nel testo.

Repressione dei sostenitori della Palestina

Il 7 giugno 2024, 13,42 milioni di cinesi hanno sostenuto l’esame di ammissione all’università nazionale. All’uscita dagli esami, tra il nervosismo per l’ammissione all’università e il sollievo per aver terminato la prova, molti di questi giovani hanno dedicato del tempo ad atti di protesta.

“In diversi luoghi d’esame si sono visti studenti sventolare bandiere palestinesi dopo aver lasciato l’aula”, riporta un articolo sul sito China Scope, che ha registrato manifestazioni in Hunan, Henan, Shandong, Heilongjiang, Jiangsu e Jiangxi. Lo stesso giornale riferisce che “alcuni poliziotti sono stati visti confiscare le bandiere di alcuni studenti”.

Il caso riassume bene il complesso scenario filopalestinese in Cina, dove un numero significativo di giovani si sente spinto a dimostrare la propria solidarietà al popolo palestinese, ma si scontra con la repressione dello stesso Stato cinese che, nelle conferenze internazionali, pronuncia discorsi a favore della Palestina.

Il collettivo sinofono Palestine Solidarity Action Network (PSAN; Rete di Azione Solidale per la Palestina) ha rivelato dettagli su come Israele utilizzi tecnologie cinesi nella repressione dei palestinesi. I dati sono stati pubblicati sul portale New Politics.

“Abbiamo ora approfondito un metodo fondamentale su come Cina e Israele collaborano per esercitare la loro occupazione colonialista attraverso la tecnologia di sorveglianza”, hanno scritto gli attivisti. “Un rapporto del 2023 prodotto da Amnesty International, intitolato ‘Apartheid automatizzato’, identifica come la tecnologia di sorveglianza cinese, attraverso aziende sostenute dallo Stato come Hikvision, prenda di mira i palestinesi della Cisgiordania nella loro vita quotidiana e mantenga su di loro un ambiente disumanizzante”.

Si afferma che “le telecamere a circuito chiuso da sole non sono in grado di svolgere la loro funzione di strumento di sorveglianza con la massima efficienza; esse sono spesso collegate a una rete più ampia di infrastrutture fisiche, software e sistemi di dati. Ad esempio, le telecamere Hikvision inviano informazioni al 狼群 (Alcateia), un database utilizzato da Israele che contiene informazioni esclusivamente sui palestinesi della Cisgiordania, compresi dati su patenti, familiari, indirizzi, targhe automobilistiche e se sono ricercati dalle autorità o meno”.

Gli attivisti paragonano inoltre la situazione degli uiguri, una minoranza nazionale cinese che vive principalmente nello Xinjiang, a quella dei palestinesi. I dati biometrici, le impronte digitali, l’iride degli occhi e il gruppo sanguigno degli uiguri sono stati archiviati in un database che raccoglie ogni tipo di informazione personale per la creazione di un ritratto digitale multimodale da utilizzare nella profilazione razziale.

La redazione di AND è consapevole che gli Stati Uniti e i loro agenti utilizzano la repressione cinese nei confronti degli uiguri per criticare il regime cinese e promuovere un’intensa contropropaganda anticomunista, ma ciò non esclude la realtà che, di fatto, la Cina reprime questa minoranza nazionale. Allo stesso tempo, la retorica statunitense rivela solo l’ipocrisia della democrazia borghese degli Stati Uniti, poiché la tecnologia delle telecamere con riconoscimento facciale è presente anche negli Stati Uniti e lì i cittadini non bianchi sono più spesso fermati dalla polizia e sottoposti a test invasivi per il riconoscimento facciale. Inoltre, le regioni con più abitanti non bianchi hanno una maggiore concentrazione di telecamere compatibili con la tecnologia di riconoscimento facciale.

Lo stesso collettivo PSAN sottolinea che “la lotta contro il neo-Maccartismo e contro la sinofobia in Occidente non deve necessariamente significare la difesa di un altro Stato oppressivo”. “Il nostro appello a liberarci di Hikvision non ha lo scopo di eccezionalizzare il ruolo della Cina nella violenza, ma piuttosto di fornire un programma mobilitante per le comunità sinofone di tutto il mondo affinché facciano la loro parte per resistere al ruolo delle istituzioni cinesi in Israele e in altri regimi di apartheid”, sostengono gli attivisti. È molto difficile manifestare in Cina, ma la presenza transnazionale di Hikvision ci consente di identificare obiettivi per contrastare le entità di sorveglianza sostenute dallo Stato cinese in tutto il mondo.”

“Ci auguriamo che la nostra campagna contro Hikvision, che è la continuazione di un movimento più ampio di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro le aziende occidentali e molte altre, incoraggi una posizione critica contro tutti gli imperialismi”, continuano gli attivisti. “Guardiamo oltre ciò che dicono i funzionari statali e prestiamo attenzione alle connessioni organiche tra le persone qui sul campo. Ascoltiamo le voci di solidarietà tra palestinesi e uiguri e sosteniamo questi legami nella lotta contro le strutture repressive comuni.”

[1] https://anovademocracia.com.br/mao-china-palestinos-revisionismo-israel/