Le ultime elezioni regionali hanno dimostrato un dato significativo su cui bisognava riflettere, la maggioranza assoluta della popolazione – più di sei cittadini su dieci – ha scelto di non partecipare a quello che, in teoria, dovrebbe essere il momento più alto della vita “democratica”  nello Stato borghese. È un dato che parla da sé: non solo l’indifferenza o la disillusione, ma un vero e proprio rigetto – sia pure ancora disorganizzato e passivo – delle istituzioni rappresentative borghesi e della loro funzione. Il cosiddetto “diritto di voto” si è trasformato in un atto privo di senso per ampi strati popolari, che non riconoscono più né nella classe politica né nei partiti alcuna possibilità di presa di coscienza e di cambiamento reale delle proprie condizioni di vita.

Il crollo dell’affluenza non è un incidente della democrazia, ma l’espressione organica della crisi di egemonia dello Stato  nella sua fase imperialista. Si tratta di un fenomeno strutturale, radicato nel progressivo distacco delle masse popolari da istituzioni che non rappresentano né i loro bisogni né le loro condizioni materiali di vita. In questo quadro, l’astensionismo non è segno di disinteresse, ma una forma embrionale – anche se ancora passiva – di opposizione politica, di rifiuto di un sistema che si riproduce attraverso l’oppressione e lo sfruttamento di molti a vantaggio di pochi.

L’apparato statale e i suoi strumenti ideologici – partiti, media, accademia e apparati culturali – hanno reagito a questa tendenza con un attacco frontale all’astensionismo. Nel 2025, in concomitanza con la discesa dell’affluenza, si è assistito a una campagna coordinata di giornalisti, opinionisti e “intellettuali organici” volta a criminalizzare il non voto, presentandolo come minaccia per la “democrazia”. Dai quotidiani come la Repubblica e Il Corriere della Sera fino ai commentatori televisivi più noti, si è invocato un “ritorno alla responsabilità civica”, mentre politologi hanno parlato apertamente di “crisi della rappresentanza da curare con il rafforzamento delle istituzioni”. Anche figure del giornalismo “progressista” come Michele Serra hanno richiamato gli elettori a “non abbandonare il voto”, come se la partecipazione elettorale fosse di per sé una forma di opposizione.

Ma dietro questo coro unanime si cela la paura delle classi dominanti di fronte alla disgregazione del consenso. La borghesia, che ha fondato il proprio dominio sul mito della partecipazione, non può tollerare che la maggioranza della popolazione smetta di legittimare il potere con il proprio voto. L’attacco all’astensionismo, dunque, è in realtà un attacco preventivo contro la possibilità di una politicizzazione autonoma delle masse, un tentativo di riportarle sotto il controllo delle forme “accettabili” della rappresentanza, prima che la loro sfiducia si trasformi in organizzazione e lotta.

In questo senso, il cosiddetto “allarme astensionismo” è una strategia difensiva della borghesia in crisi, una minoranza – composta dalle classi medie, dagli apparati burocratici, dagli imprenditori e da settori privilegiati del proletariato integrato (aristocrazia operaia) – continua a partecipare e a trarre benefici dal sistema, la maggioranza del popolo è esclusa, marginalizzata, resa spettatrice impotente del gioco elettorale. Le elezioni regionali, come quelle nazionali, sono diventate una pura messa in scena, un meccanismo attraverso il quale il potere capitalistico rinnova formalmente la propria legittimazione.

Questo fenomeno è evidente in tutto il territorio nazionale, ma assume tratti particolarmente emblematici anche qui in Campania, una delle regioni in cui la contraddizione tra la forma “democratica” dello Stato e la realtà concreta del dominio borghese appare con la massima chiarezza. La Campania è una regione che da decenni vive sotto il segno della dell’oppressione economica, della corruzione politica, della disoccupazione di massa e del controllo capillare del territorio da parte di organizzazioni criminali perfettamente integrate nelle istituzioni.

Qui la presunta democrazia borghese mostra il suo volto autentico: un processo politico complessivo, nel quale le amministrazioni locali — comuni, province, regione — svolgono il ruolo di intermediari fra lo Stato centrale, il capitale imperialista nazionale ed i ceti locali parassitari. La distribuzione dei fondi europei, l’assegnazione degli appalti, la gestione della sanità, dei trasporti e dei rifiuti, la pianificazione urbanistica e ambientale diventano strumenti di gestione politica e tentativo di consolidamento del consenso, mentre riproducono ed accentuano le disuguaglianze sociali. Ogni grande progetto “pubblico” diventa occasione di profitto per le imprese amiche, di arricchimento per funzionari e politici, di cooptazione per i gruppi di potere locali. Le organizzazioni criminali – la camorra in primo luogo – non rappresentano un elemento esterno o patologico del sistema, ma un suo ingranaggio integrato, un’estensione economica e sociale delle stesse strutture statali e imprenditoriali, atte a precarizzare, passivizzare e reprimere le masse.

In questo quadro le elezioni regionali campane non possono che assumere il carattere di una farsa politica. La competizione elettorale serve a rinnovare periodicamente la facciata “democratica” del potere, a decorare un edificio marcio, e dare l’illusione della possibilità di una scelta, questo quando in realtà tutte le forze in campo sono si in competizione tra loro, ma all’interno dello stesso sistema di potere. Che si tratti del centrosinistra legato al Partito Democratico, del centrodestra di marca liberale e reazionaria,  delle liste civiche e riformiste che si presentano come “alternative” o di Campania popolare, la sostanza non cambia: tutte condividono l’obiettivo della salvaguardia e riproduzione di questo Stato. Una macchina statale rappresentante degli interessi dell’imperialismo italiano a cui sono interne anche le grandi rendite vecchie e nuove del Meridione e che rappresenta la vera causa, che nessuno nomina, della situazione di arretratezza ed oppressione della Campania ed in generale del Sud e delle Isole.

All’interno di questo scenario si colloca dunque anche la lista “Campania Popolare”, presentata da alcuni media e “circoli progressisti” come una nuova forza riformista capace di rappresentare  “il territorio” e “le istanze popolari”. In realtà, essa costituisce un tipico prodotto della crisi del riformismo italiano e del tentativo di ricostruire un punto d’appoggio tra le masse deluse, senza però mettere in discussione i fondamenti del sistema capitalistico. Dietro la retorica del civismo, della partecipazione e del “buon governo”, si muove una coalizione capeggiata da vecchi amministratori operanti all’interno o a fianco di PCI-PDS-DS-PD.

Questa lista ha ricevuto anche il sostegno di De Magistris che già aveva collaborato con Potere al Popolo e Rifondazione Comunista. Luigi De Magistris si proponeva già prima, in qualità di sindaco, come vicino ai movimenti sociali e ai ceti popolari, ma con un’ottica populista e una linea passivizzante. La sua decennale esperienza in qualità di sindaco di Napoli non ha minimamente intaccato il dominio predominio reale dell’imperialismo del Centro-Nord e delle grandi rendite, né ha bloccato le dinamiche repressive. In ogni caso anche lo avesse voluto non avrebbe potuto farlo. I dieci anni del suo governo a Napoli sono la migliore dimostrazione dell’inevitabile fallimento e del carattere demagogico di posizioni come quelle di Campania elettore. Una ragione in più a favore della necessità di boicottare le elezioni campane e tutte le liste che vi partecipano. L’appello populista al “popolo contro il potere” tende a sostituire un’analisi strutturale dei rapporti di classe con una retorica moralistica e etica contro le élite, che occulta gli interessi ed i poteri reali che dominano nelle istituzioni falsamente democratiche.

La funzione politica di Campania Popolare è chiara,  serve al potere borghese per prevenire la formazione di un’opposizione di classe indipendente, organizzata, capace di porre in termini rivoluzionari la questione del potere politico e della trasformazione sociale.

Le elezioni regionali si collocano dentro un processo più ampio che contribuiscono a coprire, quello della fascistizzazione dello Stato promossa da decenni dalle forze di potere di destra e di centro-sinistra e che ha anche prodotto il governo fascista in carica. Non a caso le stesse elezioni, per non parlare del funzionamento del governo regionale, si svolgono con forme ed all’insegna di meccanismi elettorali e legislativi che hanno ben poco a che fare con le stesse forme demo-liberali repubblicane ormai proprie di un lontano passato.  Quindi si tratta delle ennesime elezioni che si svolgono all’esterno delle stesse forme della democrazia borghese. Elezioni dunque legate ad un modello di forma di Stato di tipo autoritario e corporativo caratterizzato dalla transizione ormai galoppante verso lo Stato di Polizia, ossia un regime fascista dispiegato.

In Italia, come in tutto l’Occidente, il potere esecutivo, a tutti i livelli di governo, da quello nazionale e quello comunale, predomina largamente. Le forze di opposizione che entrano nelle rappresentanze istituzionali nel caso volessero farlo, non hanno nemmeno la possibilità di svolgere una qualche significativa azione di propaganda o di portare al confronto, alla discussione ed al voto, interrogazioni, mozioni e proposte di legge. La loro funzione diviene concreta solo nella contrattazione con le forze che gestiscono gli esecuti ed in tal caso si tratta appunto della  cogestione delle politiche antioperaie e di quelle che viceversa avvantaggiano di volta in volta specifici strati della piccola borghesia privilegiata e della media borghesia. Nello stesso tempo   il controllo mediatico, poliziesco e giudiziario si è intensificato, le misure repressive contro i movimenti sociali, gli studenti, gli operai e gli immigrati si moltiplicano. Lo Stato borghese, travestito da “democrazia liberale”, assume sempre più i tratti di un regime fascista  e corporativo, che utilizza il linguaggio della “democrazia”  per accentuare lo sfruttamento e la subordinazione delle masse popolari. Il tutto in un clima di devastazione dei servizi sociali di pubblico interesse a vantaggio delle politiche di riarmo e della partecipazione ad imprese e guerre imperialiste. Le elezioni sono diventano una parte dell’apparato di dominio, un rituale periodico per legittimare la dittatura politica, economica e poliziesca della borghesia con il consenso apparente dei cittadini.

La Campania è una delle regioni in cui tutto questo  è ancora più evidente, accentuato alla gestione clientelare dove  la burocrazia regionale opera per rimpinguare le grandi rendite, sostenere i ceti medi privilegiati e frammentare e smussare il conflitto sociale, mentre la criminalità organizzata svolge una funzione economica e disciplinare come Stato all’interno dello Stato. La borghesia industriale locale, come quella di altri settori dal commercio all’agricoltura, è debole ed è dipendente soffocata in parte dalle stesse grandi rendite del Meridione e dalle medie e grandi industrie, centrali di distribuzione e consorzi, del Centro-Nord, oltre che da imprese multinazionali, e dal grande capitale finanziario. Non usufruisce quindi di un progetto autonomo di sviluppo, ma sopravvive soprattutto grazie ai contributi e  sussidi. In questo ambiente, le forze riformiste come Campania Popolare trovano terreno fertile: parlano di rinnovamento, ma in realtà non attaccano gli interessi dell’imperialismo del Centrp-Nord, delle grandi rendite e della borghesia parassitaria che hanno condannato la regione all’arretratezza e alla dipendenza.

Le masse popolari campane, al contrario, vivono una condizione di sfruttamento e di alienazione crescente. I lavoratori del settore pubblico e privato vedono i loro salari erosi dall’inflazione e dalla precarietà; i disoccupati e i giovani sono costretti a emigrare o a sopravvivere di lavoretti e assistenza; le aree interne sono spopolate, i territori devastati dalle discariche e dalle industrie inquinanti. Tutto questo non è tanto il frutto di una “cattiva amministrazione”, ma la conseguenza diretta del dominio capitalistico e quindi della stessa Questione Meridionale, che come ben indicato da Gramsci può avere solo una soluzione rivoluzionaria a partire dalla costruzione di un blocco egemonico a guida proletaria.

Di fronte a questa realtà, la partecipazione elettorale appare come un atto inutile, se non dannoso.. Ogni lista che accetta le regole del gioco borghese, anche quando si presenta come “cimunista” o “popolare”, contribuisce a mantenere in vita il meccanismo di fondo di sfruttamento ed oppressione. L’illusione del cambiamento per via elettorale è una delle armi più potenti della borghesia: serve a ritardare la presa di coscienza, a sostituire la lotta collettiva con la delega, a trasformare il popolo in pubblico, la politica in spettacolo.

La via d’uscita non può venire dalle urne, ma dalla lotta organizzata e dalla costruzione di un reale partito comunista e di un fronte popolare rivoluzionario. È necessario che il proletariato campano, insieme ai disoccupati, ai giovani, alle donne, agli studenti, ricostruisca le proprie forme autonome di organizzazione e di resistenza. Solo così, sulla base della centralità dell’autonomia politica e ideologica del movimento operaio, sarà possibile spezzare la catena che lega le masse popolari al carro della borghesia, delle grandi rendite e dell’imperialismo del Centro Nord. Comitati popolari, coordinamenti di quartiere, organizzazioni di classe devono sorgere ovunque per opporsi concretamente allo sfruttamento, alla devastazione ambientale, alla corruzione e alla repressione, legando strettamente la lotta sulle questioni particolari a quella del programma per una rivoluzione democratico popolare antifascista. Solo con questa impostazione la lotta di massa può trasformarsi in movimento rivoluzionario  indipendente, costruire il fronte popolare rivoluzionario e preparare la rivoluzione nella forma di una Nuova Resistenza. 

Le prossime elezioni regionali campane, come tutte le elezioni borghesi, non rappresentano un momento di libertà, ma un dispositivo di controllo. Il compito dei rivoluzionari, dei comunisti, dei sinceri antifascisti non è quello di parteciparvi, ma di smascherare la funzione, di utilizzare la campagna elettorale come strumento di denuncia e di propaganda, per diffondere nelle masse la consapevolezza che nessun cambiamento reale può venire dal voto, ma solo dall’organizzazione, dalla lotta e dall’unità di classe.

La lezione della storia è chiara: ogni conquista, ogni diritto, ogni libertà è stata presa con la forza dell’organizzazione e della bandiera rossa, mai concessa dal potere borghese. Anche in Campania, la liberazione dalla miseria, dal clientelismo e dal dominio mafioso non potrà venire da una lista elettorale, ma dalla costruzione di un movimento rivoluzionario radicato nelle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole, nei territori, nei paesi, nelle campagne capace di unire teoria e pratica, coscienza di classe, resistenza quotidiana e prospettiva rivoluzionaria. Tutto il resto — le promesse riformiste, le liste civiche, le campagne elettorali — non è che fumo negli occhi, un’arma di distrazione di massa nelle mani del nemico di classe.

COLLETTIVO STUDENTESCO UNIVERSITARIO NAPOLI DI  PER LA DEMOCRAZIA POPOLARE